La corrosione del canone culturale
Nel 2014, quando ho aperto questo blog, avevo l’idea di fondo che fosse in atto una corrosione senza precedenti non di un aspetto o l’altro della nostra tradizione culturale, ma una demolizione in blocco, fino alle sue stesse radici. Radici che sono cristiane, greche, romane. Hanno cioè a che fare con quel piccolissimo lembo di terra e di tempo in cui gli uomini sono preziosi individualmente: quel che si chiama Occidente. Il nostro canone culturale è incompatibile con la nuova barbarie montante, è il suo assoluto contrario: avendo come fulcro la persona, modera i forti, difende i deboli, richiama tutti alla virtù, alla dignità di figli di Dio. Se si vuole spazzare questa fragile zona di vera libertà e dignità, bisogna distruggerne la cultura, la memoria e, soprattutto, la fede.
Già nel 2014 scrivevo dell’attacco a Dante e al libro per eccellenza, la Bibbia. È notizia recente la scelta di sostituire, nel Sussex, le diciture “avanti Cristo” e “dopo Cristo” con “prima dell’era comune” ed “era comune”. Lo spartiacque della storia, lo “stat Crux dum volvitur orbis” di certosina memoria, è rimosso, o in via di rimozione. Quello che a me pare evidente, cioè che senza Cristo veniamo ricacciati nel luogo della storia in cui gli uomini valgono solo per la forza con cui si sanno imporre o come schiavi da sfruttare, è invece opaco al nostro tempo.
In balia di dèi irrazionali
Siamo giunti all’ora in cui non c’è delirio, non c’è dissoluzione, che non pretenda in primo luogo di avere gli onori delle cronache, poi il privilegio di non essere criticato in nessun caso, infine il diritto di essere imposto nelle scuole, con o senza il benestare delle famiglie (o del poco che resta di queste). Ad Oxford, per esempio, il comitato degli studenti del college Balloil ha deciso di escludere l’Unione Cristiana dalla fiera annuale delle matricole, in quanto la religione cristiana, quella stessa che ha fondato i suoi college, quella che permea la letteratura del suo paese, che ha forgiato la sua storia, andrebbe censurata in quanto “procura danno”.
Neppure le scienze e la matematica sono al sicuro. In particolare, mi ha colpito quanto espresso da Rochelle Gutierrez, professoressa di matematica presso l’Università dell’Illinois. Secondo la professoressa, la matematica sarebbe una materia “da bianchi”, che promuoverebbe i privilegi dei bianchi e sarebbe un elemento di discriminazione delle minoranze etniche, qualora queste avessero prestazioni inferiori agli studenti caucasici. Sembrerebbe uno dei tanti episodi della cultura del piagnisteo, come la chiamava giustamente Robert Hughes, ma con un dettaglio in più. Quando si tratta di dare una lettura afroamericana, asiatica, latinoamericana, femminista, omosessualista alla storia, alla letteratura, alla filosofia, alla religione, tutto sommato si sta adottando un certo grado di relativismo, ma un relativismo ancora “culturale”, un relativismo delle opinioni. Si nega la possibilità di stabilire il bello e il bene in assoluto nel campo delle arti e delle idee, si dà inoltre un duro colpo anche al concetto di vero, ma non lo si abbatte del tutto. Quando si tenta invece di calare lo stesso metodo sulle scienze esatte si scardina del tutto l’idea di fondo che il mondo sia conoscibile, che nella sua essenza la mente dell’uomo possa penetrarne la struttura, che ci sia un’oggettività di ciò che è misurabile, pesabile, prevedibile, che ci siano delle leggi della natura, che ci sia una natura stessa al di fuori di noi, che in primo luogo va osservata per poter essere conosciuta. Da alcuni secoli, tale convinzione è stata la molla del progresso scientifico prima, di quello tecnologico poi, e non solo dell’occidente. In effetti, tutti i paesi, anche di cultura radicalmente non-europea, come quelli dell’estremo oriente, quando hanno voluto affacciarsi nel mondo dell’avanguardia scientifica e tecnologica hanno deciso di coltivare la matematica, la fisica, le scienze esatte. Se queste sono ridotte a uno strumento della supremazia bianca dovranno ovviamente essere ridimensionate, equiparate ad altre forme di conoscenza non scientifica, l’intuizione, il “mi pare”, oppure il “si dice”. L’uomo perde la sua capacità di conoscere l’universo, diventa schiavo delle più assurde superstizioni e credenze e, abbandonato un Dio ragionevole, non può che darsi in pasto a dèi irrazionali.
Un certificato di morte
Non è una malattia, è un certificato di morte. La pretesa di poter mangiare i frutti – di cultura, libertà, dignità – anche dopo aver abbattuto l’albero che li produceva. Credere che l’umanità possa ridisegnarsi da sola, e meglio, in un paio di generazioni, dedicandosi all’oblio, all’incultura, all’incuria. Barbari tecnologici che corrono a tutta velocità verso l’autoliquidazione e un nuovo autoritarismo alle porte.
Ci sono infatti solo due grandi aree della storia: quella in cui gli uomini valgono e prevalgono grazie all’uso della forza, e quella in cui valgono come individui in sé. Nell’area della forza bruta ci sono i sacrifici umani dei popoli antichi, secoli di schiavitù e sopraffazione, tutti i totalitarismi del secolo passato, così come il terrorismo odierno e il suo contraltare, un nichilismo che porta le persone a farsi schiave volontarie del nulla, delle pulsioni più bestiali, che le incatenano. Poi c’è l’area dove gli uomini stanno in piedi, dignitosi, figli adottivi di un Dio ragionevole che li ha amati fino all’offerta del Suo unico Figlio. A ognuno di noi viene chiesto di prendere posizione, nessuno è escluso, non ci sono terze posizioni. Ognuno di noi deve diventare un confine tra i due mondi e decidere se portare dentro di sé il suo brandello di luce o di tenebra.
Purtroppo, infatti, la linea di confine si è spostata dal limes esterno del mondo occidentale al suo interno. Non solo per quel riguarda terrorismo, laicismo aggressivo, sfaldamento sociale e antropologico. Il confine è ormai dentro ogni aspetto delle nostre vite, dentro di noi: nelle famiglie, nelle scuole, nella Chiesa, nei cuori, nei gusti, nel linguaggio. Tutto si mischia con terribile velocità, su tutto si proietta la linea d’ombra.
Un’arca per sopravvivere: l’Opzione Benedetto
Umanamente, non so se ci siano soluzioni. Molte ricette, politiche e sociali, paiono cure del tutto insufficienti, come curare un tumore terminale con l’aspirina. Non rimane altra resistenza che costruire uomini. Cercare gli altri superstiti come noi, quelli che ci aiutano a guardare in alto, e provare a sostenerci a vicenda. Come dicevamo altrove, custodire il seme. Soprattutto non resta altra speranza che la vita in Cristo, il quaerere Deum.
In questo quadro, che non è di semplice contrapposizione tra fede e laicità, o tra cultura occidentale e relativismo, bisogna essere molto onesti: è in atto un processo di assalto esterno, così come un processo di dissoluzione interna. Ad esempio, non solo diminuisce il numero dei credenti, ma si sfalda sempre più rapidamente la qualità delle credenze. Ne parla Rod Dreher in The Benedict Option (vedi anche l’articolo pubblicato tempo fa in merito), quando parla del deismo moralista terapeutico, come della vera religione professata dalla maggior parte dei giovani – e non solo giovani – credenti di ogni confessione cristiana. Dreher suggerisce che se ne esca con piccole comunità, non chiuse all’esterno, ma principalmente dedite a usare le poche energie a disposizione per fare poche cose fondamentali: 1. trasmettere l’integrità della fede alle nuove generazione, e non una copia edulcorata 2. conservare delle forme di culto integrali, cioè non diluite e annacquate da forme di compromesso 3. creare un “villaggio cristiano”, con forti e solidi rapporti interpersonali 4. essere controculturali. Torneremo a parlarne prossimamente.
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