Nell’ordine benedettino i monaci al momento della loro professione solenne pronunciano tre voti: stabilità – stabilitas, conversione dei costumi – conversatio morum e obbedienza – oboedientia (v. Sancta Regula, cap. LVIII).
In sintesi, la conversione dei costumi ha a che fare con povertà e castità, ma è molto più vasta: parla di radicalità evangelica, di completa riforma della propria esistenza, di abbandono della vita nel mondo per una nuova vita posta alla presenza di Dio.
L’obbedienza ha a che fare con la parola che apre la stessa Regola di san Benedetto: obsculta, ascolta. Il monaco è obbediente perché si pone all’ascolto della volontà di Dio, che si manifesta in particolare nella Scrittura, nella liturgia, nell’Abate e nella comunità. Solo in questo modo ha la garanzia di non essere su una strada tracciata dalle proprie illusioni, ma alla sequela di Cristo.
La stabilità, infine, ha a che fare con il legame specifico con una singola comunità, l’impegno e la fermezza nel vivere in un luogo definito, con precise persone, all’interno di consuetudini determinate. Il monaco non sceglie di far parte di un intero ordine monastico, non ha un legame generico con la spiritualità di san Benedetto, ma sa che la sua vocazione passa attraverso il rapporto con un gruppo di persone in carne ed ossa, una speciale declinazione della comunione dei santi che crea una temperatura e coloritura spirituale diversa in ogni monastero. Vede il Cielo dallo spazio ristretto di un chiostro e sa che ogni piccola norma, sulla sveglia e i pasti, sugli orari e il sonno, sul vestiario e il modo di salutarsi, ogni dettaglio ripetuto negli anni, radicato a fondo nel corpo e nella mente, potrà essere una scala verso le altezze della vita dello spirito o una zavorra che porta al suo degrado.
La stabilità parte dalla consapevolezza che nulla ha valore nell’uomo, che non sia frutto di perseveranza, di combattimento e sacrificio. Possiamo declinare tale consapevolezza in molti modi: nei rapporti famigliari, ad esempio, cosa vale un amore che sia solo sentimento e passione, se non è posto nel crogiolo della fatica, della disillusione, della quotidianità, del tempo, persino alla prova feroce della malattia, del tradimento, del lutto, a volte?
La stabilitas loci nella vita spirituale, e non solo dei monaci, è perseverare in ciò che ci fa bene e ci nutre, senza la tentazione di diventare vagabondi dello spirito, scegliere ad esempio un padre spirituale, non svolazzare tra varie figure, magari carismatiche, oppure trovare un luogo dove frequentare la Messa, senza diventare dei turisti liturgici, o ancora rimanere fermi in alcune letture spirituali che ci fanno bene, invece di avere una sorta di bulimia che ci porta a mille letture, mille pratiche, mille suggestioni appena colte e subito abbandonate senza approfondirle. Personalmente, ad esempio, amo recitare l’Ufficio e il Rosario, ma non mi trovo particolarmente bene con altre devozioni e novene. Per altri sarà magari l’opposto, ma dubito fortemente che tentare di imbottire la propria vita con tutte le possibili opzioni che abbiamo nel campo della preghiera ci porti a una spiritualità più ricca. Ciò che conta è posare il piede ogni giorno sulla stessa pietra, sedere allo stesso stallo, vedere la luce filtrare dalla stessa finestra, scorgendone le variazioni nell’arco del giorno, delle stagioni e degli anni. Fuor di metafora, si tratta di sviluppare un radicamento e un’unità interiore, che tanto acquista in profondità tutto ciò che si nega in ampiezza e superficialità. Perché tutto ciò che non è profondo e radicato viene la tempesta e lo sradica, viene la tentazione e lo corrompe, viene la prova e lo schianta. Solo ciò che rimane fisso in Cristo si regge, o meglio: viene sorretto e sta.
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